Quella dell’illustrazione che abbiamo scelto, non è una foto creata con Photoshop, non è un disegno, un fumetto, né l’immagine di un film. é ciò che è restato in strada di Antonietta Multari, uccisa in strada, sotto gli occhi di tutti, nel pieno centro di Sanremo, da Luca Delfino, un pericoloso sociopatico che aveva già ucciso Luciana Biggi ed era già additato come un mostro a spasso.
Ancora ed ancora l’orrore si ripete a cadenza sistematica. C’è sempre una donna uccisa da un ex, da un marito geloso, da un padre padrone, molto spesso denunciato, a volte addirittura condannato e lasciato ai domiciliari. C’è sempre una donna uccisa e che avrebbe potuto continuare a vivere se solo la si fosse adeguatamente protetta.
Ancora ed ancora questo non avviene. Ancora ed ancora il pericolo è sottovalutato ed i mezzi di autodifesa delle donne vengono soffocati dai tagli dello Stato, che colpiscono sempre le fasce più deboli, e dall’indifferenza di una stampa machista.
Ancora ed ancora, dalla notte dei tempi, le donne pagano un interminabile tributo di sangue, un assurdo sacrificio inutile all’ego di certi maschi.
Oggi e sempre ciò che maggiormente addolora le donne e gli uomini consapevoli, è il complice sistema omertoso che nasconde la violenza sulle donne. Oggi più che mai, il 25 Novembre, nella Giornata Internazionale Contro la Violenza Sulle Donne, vogliamo urlare per squarciare il silenzio.
Non sono “fatti privati”, non è vero che “tra moglie e marito non mettere il dito”. Il dito si deve mettere eccome, invece, in tutte quelle situazioni di violenza maschile, prepotenza, esercizio della coercizione, abuso. La donna non è stata fatta per servire l’uomo, non è stata fatta per fungere da sfogatoio, non è stata fatta per essere legata con catene ad una struttura patriarcale.
La donna è fatta per camminare al fianco maschile, unire la propria forza, le proprie capacità alle maschili per il pieno e pacifico sviluppo della società. Vogliamo capirlo o no?
CONOSCO I PASSI
di Nadia Somma
Dedicato alle donne vittime di violenza e ad E. operatrice di un centro antiviolenza che mi insegnò molto sul dolore e la paura e sulla capacità di ascoltare ed accogliere.
Aiuto le donne a scappare, lo faccio da vent’anni. Aiuto le donne a scappare dall’inferno della violenza. I sacchi dell’immondizia adoperati come valigie dove, in fretta, in fretta, stipano alla rinfusa i pochi indumenti che riescono ad afferrare dai cassetti quando in piena notte con la volante sotto casa sono portate via dalla polizia, insieme ai loro bambini, in un riparo occasionale: alberghi, bed and breakfast.Sacchi di immondizia dove, spesso, ci sono anche vestitini, piccole maglie, pannolini, i documenti, le chiavi, un peluche, un automobilina, qualche foto, una bambola. Le fughe organizzate di nascosto, i fogli con le denunce, i referti del pronto soccorso, i lividi, così neri e gonfi che non avrei immaginato di vedere, le mani fasciate, le bende sugli occhi, i tagli sulla fronte, i lividi sul collo, i capelli strappati, le ustioni. Le aule del tribunale, le caserme e gli uffici disadorni dei carabinieri e della polizia.
Le parole prive di emozione con cui raccontano gli insulti, i pugni, le botte, i calci, le mani addosso, le mani tra le gambe, le denigrazioni continue, le umiliazioni: “puttana, troia, mignotta, scrofa, vacca, pazza, pezza di merda, striscia, t’ammazzo, t’uccido, ti brucio, ti strozzo, ti amo, ti amo ancora, perdonami, perdonami ancora e ancora e ancora, ancora una volta”.
Sedute nelle sale d’attesa del pronto soccorso, in attesa della radiografia, dei referti, del ricovero o sui lettini ginecologici: immobili e con gli occhi sgranati e fissi al soffitto, a cercare si sentire se c’è ancora il tracciato del battito cardiaco del feto, quando i colpi con furia cieca sono arrivati sulla schiena, sulla pancia; su quegli stessi lettini per una visita che accerti uno stupro.
Con le valigie e i bambini in braccio che aspettano un treno in stazione, o con le valigie in mano mentre scendono da un treno. All’aeroporto per mettere distanza tra loro e la violenza. Sedute sulla poltrona davanti a me: silenziose, in lacrime, adirate, offese, spaventate, determinate, realiste, illuse, in bilico tra la libertà e la cronaca di una morte annunciata. In bilico tra la decisione di tornare sui loro passi o andare via, in bilico tra la paura e la speranza che qualcosa cambierà. Incerte mentre si guardano intorno nella casa rifugio che le ospiterà, e anche improvvisamente allegre, ottimiste, piene di speranze e di progetti. Ricordo le loro risate i loro pianti e i loro silenzi. Italiane, inglesi, americane, rumene, russe, marocchine, tunisine, algerine, croate, bulgare, indiane, cingalesi, malgascie, cubane.
Di ogni parte del mondo. Sposate, fidanzate, prostituite, barattate per aver perso al gioco, pedinate, rinchiuse in casa, buttate fuori casa. Perché in vent’anni ne ho incontrate tante. Ne incontrerò ancora, non sono stanca. Sono stata una di loro, una donna in fuga, conosco i passi, i silenzi e le urla improvvisa dell’anima, l’angoscia e la speranza, la paura e il coraggio. Conosco il deserto che sembra infinito, e quella sensazione di essere di vetro. Trasparente come se ti potessero leggere dentro i segni della violenza anche quando non sono visibili sul corpo, fragile come se potessi andare in pezzi da un momento all’altro, con pensieri che come schegge di vetro esploso, potrebbero schizzare portandoti via, portandoti altrove la mente per sempre, purchè sia lontano, lontano da quel deserto. Frangibili come fossero di vetro eppure, eppure irriducibili. Eppure forti.
Assetate d’amore, di rispetto, di riguardo, di riconoscimento, ricongiungimento. E’ tuo marito, è tuo padre, è il migliore amico, è il tuo amante, è il tuo ex, è il tuo compagno di scuola, è tuo fratello, è il tuo datore di lavoro, è il tuo capo, è il tuo collega, è uno sconosciuto, è il tuo uomo. Ora basta! Non sono stanca, conosco i loro passi.
Non vivo più in quel deserto e conosco i passi che portano via.
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