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lunedì 7 luglio 2014

Appello a Repubblica per una informazione che non beatifichi gli assassini di donne e bambini


Ne ho parlato qui poco fa. Di articoli pessimi sul femminicidio o sulla strage familiare del giorno ce ne sono ad ogni amaro appuntamento. Se dovessimo metterci in fila per protestare con ogni redazione un giorno sì e l’altro pure ci sentiremmo come nell’atto di svuotare il mare col proverbiale cucchiaio o bicchierino o secchiello, che dir si voglia. Anzi, no, ci sentiamo già così. Ogni tanto ci si illude che un appello collettivo, un seminario, un convegno al senato, possano indurre il mondo del giornalismo alla responsabilità collettiva, perché di responsabilità si parla. Il modo in cui si racconta la realtà va a sostituirsi alla percezione della stessa. I mezzi si fanno formatori del pensiero e possono creare alibi morali. Possono anche offendere la memoria delle vittime, offendere le loro famiglie oppure, come in questo caso, offendere persone ancora vive ma non in grado di difendersi. Non abbiamo bisogno di rinnovare la colpevolizzazione delle vittime, la famosa rivittimizzazione secondaria. È un processo quotidiano e spontaneo che si autoalimenta.
Le vittime non vincono mai, nemmeno moralmente, non in questa nazione che vive la presenza femminile come una presenza di servizio. Subiscono spesso una vita infernale, subiscono la morte, talvolta una morte particolarmente crudele e subiscono anche la solidarietà verso i loro aguzzini, la diffamazione post mortem.
Le donne non muoiono mai abbastanza. Non soddisfano mai abbastanza l’incredibile risentimento maschilista che non riesce a trovare il proprio bandolo ed a risolversi in un’autoanalisi. Subiscono anche l’onta della distorsione del significato di “vittima”, confuso spesso con quello di “succube”, e questa interpretazione di una parola, come al solito, vale solo o soprattutto per le donne, sottoposte ad un rigido standard moralista che non lascia comunque mai una via di scampo.
Ripubblico la schermata dell’articolo per il quale è stato scritto l’appello che ripropongo qui sotto.

repubblica articolo

Le donne si possono uccidere


I bambini, eh, i bambini no, non si toccano.  Quante cose si imparano leggendo i commenti agli articoli sul femminicidio.  E quante cose si imparano leggendo gli articoli sul femminicidio, cosa ancora più grave.
Nei commenti, le donne uccise da ex fidanzati, compagni, amanti o mariti si trasformano magicamente ed istantaneamente in ex mogli e quindi mefistofeliche megere, a prescindere dal loro status effettivo. Non c’è più femminicidio che non sia strumentalizzato da commentatori del movimento maschile per fare pressione per l’approvazione dell’affido condiviso forzato. Spariscono le fidanzate, spariscono le amanti, spariscono conviventi, donne corteggiate, mamme, nonne, sorelle e vicine di casa. Ogni donna uccisa viene descritta come ex moglie. Perché?  Ma come perché? Non lo sapete che oggi “ex moglie” è un altro dei nomi di Satana?  Ogni donna uccisa faceva sicuramente parte di quella informe massa di sfruttatrici di poveri padri separati, verosimilmente era anche fedifraga, immonda e perfida zoccola, insomma, se lo è certamente meritato.  Ogni povero assassino è stato costretto, capite, per legittima difesa, per riacquistare la libertà dai vincoli o talvolta per prendersi un simpatico premio assicurativo e farsi, magari, quella meritata vacanza in Thailandia o Brasile che tanto sognava. Ci piange il cuore nell’immaginare la sua mano levata per armare la pistola o raccogliere il coltello o portarselo da casa o procurarsi una balestra o portarsi dietro benzina e fiammiferi, eccetera,  comunque innocente e succube di una forza misteriosa  quanto giusta ed ineluttabile chiamata “rabbia” (o proprio al limite “gelosia”, per farci una concessione, perché in realtà, sapete, alcuni commentatori pensano che le vittime ai loro assassini facessero così schifo che non si potesse parlare di gelosia, figuriamoci un po’ di possesso).  Eh bisognerebbe proprio arrestare quelle due disgraziate che sono Rabbia e Gelosia. Non per niente sono termini al femminile e ciò che è femmina è diabolico e malvagio, si sa.  Pertanto, le giustificazioni vengono meno solo davanti ai bambini. I bambini no: “I bambini non si toccano”. I bambini.  Maschi. Quelle altre lì, quelle cose coi codini e gli abitini rosa, perdono ogni status di difendibilità a partire dalla prima mestruazione. Talvolta anche prima.
In Italia il valore di una vita si misura con il suo grado di esposizione alla sessualità. Più sei giovane e meno ne sai di sesso e quindi sei più puro e meno meritevole di morte. Il contatto sessuale, invece, contamina. Naturalmente contamina solo le femmine. Se hai 4 anni, sei stuprata e uccisa, il tuo assassino è un indiscutibile mostro. Se sei stata stuprata e uccisa a 13 anni, probabilmente lo hai provocato perché “le ragazzine di oggi”… Se hai più di 18 anni si parla di te come di una navigatissima nave scuola il cui valore di mercato e umano si approssima allo zero con l’aumentare dei tuoi partners sessuali.  Aumenta l’esperienza sessuale di una ragazza e diminuisce il valore della sua esistenza e la pietas relativa. Se hai sopra i 30 anni e ad ucciderti è stato tuo marito, eri sicuramente una Santippe, una scassaminchia col patentino. Sicuramente non eri solo una zoccola ma pure sulla via del disfacimento fisico. Poverino, lui ti doveva pure scopare, con tutta la carne fresca che si vedeva attorno. E allora un pover’uomo si vede intrappolato ed è COSTRETTO a macellarti. L’atto gli porta un discreto numero di fans adoranti. Diventa quasi una rockstar, un idolo delle folle, tra giornalisti ipocriti e malcelatamente misogini e attivisti dei diritti del maschio selvatico.
Questa è la deriva che, se risalita, porta a considerare feto ed embrione il non plus ultra dell’innocenza e quindi del merito alla vita e le loro ospitanti, quei contenitori che se li portano in giro, come solo fameliche e sporche zoccole che facevano meglio a tenere le cosce chiuse.
Non è cambiato molto dai tempi in cui una vergine stuprata valeva un risarcimento al padre (con il matrimonio riparatore) e una donna non vergine se stuprata poteva essere assassinata assieme al suo stupratore: le donne si valutano ancora in base al loro valore commerciale il cui imene è sigillo di garanzia e non in base alla loro natura umana.

Questo il tono dei commenti all’ultima, per ora tentata, strage.

Le donne si possono uccidere 1ed

Le donne si possono uccidere 2ed

Le donne si possono uccidere 3ed

giovedì 26 giugno 2014

Le prostitute vanno pagate. La sentenza sancisce il diritto al pagamento


La storia è questa: una giovanissima nigeriana prostituita non ottiene il pagamento ed invia una serie di messaggi pieni di ovvia rabbia e probabile intimidazione al cellulare dell’uomo che l’aveva precedentemente usata e si era poi rifiutato di corrisponderle il risarcimento pattuito.
Lui la denuncia per estorsione. Si va a giudizio. La sentenza assolve la donna dal reato di estorsione (dai 6 ai 20 anni di reclusione), derubrica il reato a “violenza privata”, condannando la signora a 4 mesi di carcere, ammette la presenza del vuoto normativo che ha consentito all’uomo di rifiutarsi di pagare il risarcimento, sancisce il guadagno della donna come giusto e afferma qualcosa di rivoluzionario per la morale italiana: la disparità di potere tra la donna prostituita ed il compratore della “prestazione” sessuale.
Assolvendo la donna dall’estorsione, legittima la sua richiesta di pagamento. La condanna riguarda solo la modalità esasperata con cui questa richiesta è avvenuta.

Leggo ed il Messaggero riportano la vicenda con un titolo simile, dal potenziale altamente fuorviante perché insiste su un dato di fatto preesistente alla sentenza  e dalla sentenza semplicemente riportato alla luce:
ad oggi, purtroppo, non esiste legge che obblighi il “cliente” a pagare la prostituta.
Ciò non equivale al consenso di rifiutare il pagamento alla donna prostituita, altrimenti questa sarebbe stata incriminabile per estorsione. Richiedere il pagamento non è estorsione ma giusto profitto.
La sentenza, quindi, stabilisce esattamente il contrario e cioè che la richiesta da parte della prostituta è giusta e va rispettata e che il “cliente” gode di una posizione di potere che lo privilegia.

Questo il titolo del Messaggero. L’articolo relativo lo trovate cliccando qui.

Messaggero prostituta pagamento

Questo è il titolo di Leggo. L’articolo relativo lo trovate qui.

Leggo rifiuto pagamento prostituta 1

martedì 24 giugno 2014

Trogloditi alle urne. Insulti ed auguri di stupro alle politiche. Stavolta tocca a Boschi.


Continua la gogna mediatica come strumento per sobillare l’ira tra i grillini. Dopo  laura Boldrini, Maria Novella Oppo, Laura Boldrini,  Gad Lerner, Laura Boldrini la vignettista Laura Pellegrini (Ellekappa), tanti altri giornalisti, editorialisti o personaggi politici e Laura Boldrini, in questi giorni è il turno della ministra Boschi.
Non mi addentro nella questione. Non voglio sapere perché si sia guadagnatail suo giro di gogna, sono disinteressata completamente a questo governo, che non credo mi rappresenti né ci rappresenti.
Però sono stata a fare un giretto tra i commenti per un rapido reportage.
Ecco quello che ho letto:

Boschi 9

Si parte dai classici bottana e bagascia…

Boschi 3

Si passa per i classici del sessismo per cui una donna, soprattutto se bella, non è capace di fare politica ma solo “qualcos’altro”, ovvero, è buona solo come oggetto sessuale.
E meno male che è “gnocca”, ovvero una grande vagina ambulante che si userebbe volentieri.

Boschi 5

Una bella donna non può che essere una velina e così insultiamo politiche e veline e usiamo pure quel moralismo che viene sempre citato a sproposito dai falsi  libertari e dalle false libertarie.

Boschi 6

“Aveva ragione Battiato” e qui si insinua che se una donna arriva a fare la ministra non è per merito ma perché si è fatta usare come oggetto sessuale. Avevamo ragione noi ad arrabbiarci per l’uscita infelice di Franco Battiato, che è diventato addirittura un sostegno intellettuale di media misoginia ed ignoranza.

mercoledì 18 giugno 2014

IL caso Motta Visconti. Chi agisce, sceglie.

Mi dispiace che ci debbano rimettere la vita donne e bambini innocenti per dimostrare che viviamo in una società menzognera, che cancella sistematicamente e mistifica ciò che risulta scomodo.
Se non sono bastati centinaia di femminicidi ogni anno per evidenziare ciò che puntualmente viene rimosso, il caso della strage familiare di Motta Visconti ha, ancora una volta, dimostrato che:

1) La disoccupazione non è la causa del femminicidio e del figlicidio: l'assassino aveva un lavoro sicuro in una multinazionale.

2) L'ignoranza non è una causa del femminicidio e del figlicidio: l'assassino è laureato.

3) La provocazione non è la causa del femminicidio: non c'era stata alcuna lite precedente. Non si può tirare in ballo il pretestuoso ed inesistente “raptus”. Il triplice delitto è frutto di gelida premeditazione.

4) Il rifiuto dell'atto sessuale non è la causa del femminicidio: l'assassino ha persino ingannato ed usato la vittima facendoci sesso prima di pugnalarla. Forse per tranquillizzarla o per depistare le indagini. La vittima è stata ingannata ed utilizzata prima di essere eliminata.

Femminismofobia: la “retorica femminista” inventata e la censura della violenza di genere

La portata rivoluzionaria del femminismo, rispetto alle menti semplici che elementarizzano ogni concetto, va proprio nel senso opposto rispetto alla banalizzazione. Con questi presupposti non ci possiamo aspettare che i nostri contenuti siano universalmente compresi ed universalmente condivisi. Ci dovremmo, però, aspettare che i nostri contenuti non siano ricostruiti artificiosamente col rischio di attribuire a normali cittadine, a persone come tutte le altre, pensieri che non hanno mai formulato neppure mentalmente, parole che non hanno mai pronunciato, concetti mai messi per iscritto. La conseguenza di questo sistematico processo è la femminismofobia, la quale è funzionale al terrorismo psicologico messo in atto sulle donne affinché non perseguano i propri diritti, non comprendano le ingiustizie che subiscono e si sottomettano docilmente ed autonomamente.
Presto o tardi rivedremo le streghe sui falò, come avviene ancora in Papua Nuova Guinea.
In attesa di biscottare sul mio personale falò, allora, vorrei ancora una volta tentare di spiegare concetti forse ostici in epoca di analfabetismo di ritorno o di analfabetismo funzionale. E anche la perfetta conoscenza grammaticale non sostituisce l’ignoranza semantica.
”Vittima” non è in alcun modo sinonimo di “essere angelicato, puro, innocente, senza macchie, irreprensibile”. Vittima è chi subisce una violenza o un sopruso, indipendentemente da quanto il suo carattere fosse sopportabile.
Che “vittima” non sia sinonimo di “debole, incapace di difendersi, incapace di autodeterminarsi, pavida, fragile” e via dicendo, si è tentato di spiegarlo più e più volte.

giovedì 8 maggio 2014

#BringBackOurGirls


Un brevissimo post per farvi sapere che ci siamo e che anche se abbiamo preso una luunga pausa dall’attività (per chi non lo sapesse, la pagina è off line da Settembre scorso), resistiamo.  La condizione femminile e ogni discriminazione di genere sono sempre al primo posto nei nostri pensieri e non potevamo rimanere in silenzio anche in questa occasione che sta unendoci tutt*, in differenti nazioni.

Siamo in ansia per la sorte di queste ragazze. Siamo in ansia anche per i parenti, che hanno già tentato da soli di andarsi a riprendere le amate figlie e potrebbero riprovarci e compiere atti disperati. Siamo in ansia perché speriamo di non dover vedere rinnovato il sospetto che al mondo ci siano vite di serie A e di serie B e rassegnazione ed inazione davanti alla sorte di queste oltre 200 ragazzine nelle mani delle milizie di Boko Haram.

Ci pesa sapere che l’attenzione si sia sollevata molto in ritardo e che alla  tragedia si sia aggiunta altra tragedia con lo sterminio di 300 abitanti a Gamboru Ngala.

Con le ragazze nigeriane nel cuore…


Bringbackourgirls

martedì 12 novembre 2013

Le politiche dei papà separati in Australia… e in Italia. Strategie a confronto.


Questo articolo da Il Ricciocorno Schiattoso  (lungo ma, per favore, leggetelo, è importante per tutt*) , per mezzo di un raffronto tra un reportage e delle schermate prese dalla rete italiana, mostra ciò che stiamo denunciando anche su questo blog da anni, cioè l’unità delle strategie del movimento mascolinista nel mondo,  l’utilizzo degli stessi metodi basati sul bullismo, sul female bashing (diffamazione e ridicolizzazione del genere femminile), sulla persecuzione individuale di ogni attivista che si interessi di antiviolenza (e quindi di ogni attivista femminista o profemminista, uomo, donna che sia), sulla diffamazione del movimento LGBT
L’assoluta somiglianza delle argomentazioni, persino la comune abitudine ad inventare dati statistici privi di fondamento e circostanze fasulle, la comune tendenza a negare il fenomeno della violenza sulle donne e minimizzare la pedofilia e l’incesto ed a riferirsi ad un inesistente lobby o complotto femminista e omosessuale per minare “i valori della famiglia” , uniti ad un massivo
cyberbullismo, non sono che caratteristiche comuni  che provano l’adesione ad un sistema già collaudato altrove.
Perché questo fenomeno?
Tanto per cominciare, ricordiamo nuovamente che essi non rappresentano affatto la categoria dei padri separati ma piuttosto rappresentano i nostalgici del patriarcato, ovvero i nostalgici del potere indiscusso del solo padre all’interno della famiglia, i nostalgici dell’idea della famiglia come proprietà maschile.
I padri separati sono piuttosto un pretesto per veicolare il neomaschilismo, cioè il movimento di reazione contro l’equiparazione dei diritti.
Trattandosi di un movimento nettamente reazionario e non progressista, naturalmente non rappresenta tutti quegli uomini e quelle persone che nella suddivisione dei compiti e nella parificazione dei diritti hanno trovato vantaggi e non rappresenta tutti coloro che ritengono il maschilismo un atteggiamento deprecabile, mirato a mantenere la disparità di potere tra uomo e donna a favore dell’uomo ed il sistema di discriminazioni che concede al solo essere umano maschile, eterosessuale, preferibilmente bianco, benestante, conservatore, la fetta di potere maggiore.
Possibile mai, quindi, che in ogni nazione occidentale i padri separati vivano le stesse presunte ingiustizie che denunciano?  Non è possibile che in ogni nazione ci siano le stesse ingiustizie normative, vi pare?
Quindi la loro lamentela non è verso questa legge o quest’altra ma verso un sistema comune a queste nazioni.
Cosa hanno in comune le nazioni occidentali in cui è nato questo fenomeno? Ad accomunarle è la condizione della donna. Ovvero, la conquista dei diritti delle donne.
Non vedrete un solo padre separato lamentarsi in Afghanistan, Iran, Pakistan ed in ogni nazione islamica non moderata mentre vedrete troppo spesso padri separati indicare l’islam estremista come modello ideale.
Inoltre, certamente non sono assolutamente tutti padri separati, anzi, questi sono una ristretta minoranza.
A perorare la causa dei padri separati troverete per lo più uomini singles,  utilizzatori di prostitute, ragazzi  anche di età giovanile (spesso fragili e confusi dai messaggi contraddittori della società che da una parte dipinge gli uomini come detentori del potere e dall’altra confida sulle capacità femminili), uomini ammogliati e moltissimi uomini con un passato giudiziario discutibile, implicati a vario livello in denunce o cause per violenze ai danni di donne e bambini.
Il movimento, quindi, fornisce asilo ed una prospettiva di difesa ad ogni uomo che si sia visto denunciare per ogni forma di abuso su donne o bambini.
Quindi, riassumendo, è un movimento basato in primo luogo sull’antifemminismo e che utilizza i metodi del terrorismo di massa, cioè gli stessi metodi usati dalla chiesa cattolica e dal maccartismo per demonizzare il comunismo, quindi è basato sulla diffamazione del femminismo e tenta di indurre un fenomeno di isterismo di massa che induca all’abbandono del femminismo ed a riportare le donne sotto il controllo maschile.
Quindi, un movimento assolutamente illiberale ed antidemocratico, che esercita anche di fatto una repressione furibonda contro le femministe e i profemministi, contro le rivendicazioni di genere anche da parte di omosessuali, lesbiche, trans, intersessuali e via dicendo,  e che per aggirare le accuse di sessismo tenta addirittura il capovolgimento della logica e di spacciare per paritarismo il dominio maschile e per antisessismo il maschilismo eterosessuale.
Buona lettura.

Le politiche dei papà separati in Australia… e in Italia. Strategie a confronto.

Posted on 12 novembre 2013 di il ricciocorno schiattoso

Tratto da The politics of fathers’rights activists -Le critiche all’operato dei Tribunali meritano di essere esaminate alla luce dei fatti? di M.C.Dunn

Il testo esamina i contenuti, caratterizzati da hate speech ed estremismo, dei “fathers’ right groups” australiani. Analizza il comportamento e il linguaggio di due dei maggiori gruppi organizzati, lo Shared Parenting Council of Australia (SPCA) e la Fatherhood Foundation (FF), con particolare attenzione ai temi della violenza contro donne e bambini e il modo in cui questo tema entra in relazione con l”assenza del padre”. L’articolo fornisce anche prove di come collettivi organizzati in rete, collegati a questi due gruppi maggiori, incitino all’odio verso le donne e verso coloro che sono percepiti come “sostenitori” delle stesse. Esamina le ragioni che stanno alla base dell’accoglienza che il mondo della politica riserva a questi gruppi, mentre l’odio e il livore che emergono dai loro discorsi vengono completamente ignorati, a detrimento della condizione di donne e bambini.

Nel 1995, quando la Australian Family Law stava per essere modificata,  il giudice Nichols, a capo della Family Court of Australia, dichiarò: “Alcuni persone e alcuni politici, con limitate conoscenze degli argomenti in oggetto, si aggrappano a soggetti disfunzionali allo scopo di raggiungere obiettivi apparentemente politici. Questo è l’ultimo disgraziato effetto del progressivo aumento di potere in capo a questi soggetti: non solo il loro comportamento è considerato accettabile, ma suscita simpatie e approvazione da parte dei politici e del Governo. Questa Corte ha fin troppa esperienza del fatto che coloro che muovono quelle critiche si sono comportati in modo tale che le loro critiche non dovrebbero neanche essere prese in considerazione, e mi riferisco ad episodi di violenza contro donne e bambini.”

Il Giudice Nichols era consapevole del fatto che i più ostili critici del sistema giudiziario in tema di diritto di famiglia erano “persone insoddisfatte dell’andamento delle cause che avevano intrapreso in Tribunale, spesso persone chiaramente disturbate”. Inoltre, era consapevole del fatto che quelle stesse persone e i gruppi ai quali queste persone facevano riferimento avevano libero accesso ai corridoi del potere, accesso che ha condotto a riforme che impediscono di intervenire in caso di violenza posta in essere contro donne e bambini.

“Queste persone” ha dichiarato il Giudice Nichols “che dichiarano di difendere i diritti dei padri, in realtà fanno molto poco per la causa. Ci sono diritti legittimi che possono essere rivendicati, ma per una effettiva uguaglianza è importante che nei Tribunali non si adottino atteggiamenti discriminanti né nei confronti degli uomini né nei confronti delle donne.”

bravi_papà

Nel 1998 Warwick e Alison Marsh fondano la Fatherhood Foundation (FF) in risposta a quella che percepivano come una “crisi della società” causata dalla mancanza della figura paterna e dall’aumento dei divorzi. A sostenere la loro ascesa è stato l’aggregarsi di alcuni gruppi a sostegno dei diritti dei padri, come il “Fairness in Child Support/Non-Custodial Party” e la “Lone Fathers Association“. L’alleanza con il men’s health network, i gruppi di preghiera cristiani e conservatori e altri gruppi che rivendicano “i diritti degli uomini“, ha fatto in modo che la FF riuscisse a proporre la riforma del diritto di famiglia in modo più strategico. Obiettivo della riforma è rivendicare i diritti dei padri sui bambini, sulla base di contestabili affermazioni quali “troppi uomini si stanno suicidando a causa di un sistema giudiziario sempre a favore delle donne”, una situazione risolvibile solo per mezzo dell’imposizione della shared care.

Con shared care queste organizzazioni intendono una disposizione di legge che stabilisca che, i caso di separazione, i bambini debbano vivere il 50% del tempo con ciascun genitore; quei genitori che non intendono rispettare questo genere di accordo, devono rivolgersi al Tribunale per contestarlo, come spiega Matilda Bawden, portavoce dello Shared Parenting Council of Australia (SPCA): “Entrambi i genitori hanno il diritto di mantenere contatti con la prole con tempi paritetici e coloro che ritengono che questo non sia nel superiore interesse del minore debbono contestare l’affido condiviso in Tribunale”: ma le circostanze in cui un simile accordo è contestabile, da questi soggetti, non sono mai state chiarite.

E’ importante stabilire il corretto significato di shared care, perché mentre per questi gruppi il termine va interpretato come paritetica permanenza presso ciascun genitore, il Family Law Act modicato nel 1996 chiarisce che con “affido condiviso” si intende equamente condiviso non il minore, ma la responsabilità genitoriale nei suoi confronti: entrambi i genitori sono ugualmente responsabili del suo benessere ed è solo il benessere del minore (non le rivendicazioni dei genitori) il criterio sulla base del quale stipulare degli accordi che stabiliscano come e dove debba risiedere.

E’ a partire dal 2002 che i maggiori esponenti della FRAO (Fathers Rights Activist Organization) cominciano ad usare la più ambigua denominazione “Shared Parenting Council of Australia” (SPCA), con l’intento di proporsi come movimento supportato anche dalle donne (donne di solito rappresentate prevalentemente da seconde mogli o nonne paterne).

seconde_mogli

Mentre la Fatherhood Foundation è caratterizzata da un nucleo fondamentalista cattolico, che pone particolare enfasi sul ruolo determinante del padre all’interno della famiglia, lo Shared Parenting Council of Australia si propone a sostegno dei diritti del genitore “non collocatario” (quello che normalmente risiede meno tempo col minore), ma sono molti gli attivisti che compaiono in entrambe le organizzazioni o si spostano da una all’altra. Entrambe, comunque, sostengono la medesima riforma del diritto di famiglia, che richiede un equa divisione dei tempi di permanenza del minore presso i genitori, ma rivendica anche il diritto degli uomini su beni e proprietà condivisi in constanza di matrimonio e contesta gli ammortizzatori sociali a favore delle famiglie monogenitoriali.